Il bruxismo notturno, cioè l'abitudine a "stringere i denti" durante il sonno, è un disturbo che affligge gli adulti, ma anche un'ampia fetta di giovani e bambini. Tanto da aver spinto un gruppo di ricercatori dell'Université de Montréal, in collaborazione con varie istituzioni, ad approfondire il tema. I risultati della ricerca, pubblicati sul Journal of Oral Rehabilitation, offrono uno sguardo dettagliato su questo fenomeno e sulle possibili terapie. Servendo anche da monito a non sottovalutare questo comportamento che può nascondere altri disturbi e causare, col tempo, gravi danni ai denti, ma anche alle articolazioni temporo-mandibolari.
I dettagli dello studio sul bruxismo
Analizzando attentamente 144 studi selezionati da una lista più ampia, i ricercatori si sono concentrati su diverse forme di bruxismo notturno: 83 trattavano il bruxismo possibile, 37 quello probabile, 20 quello confermato, mentre 4 non rientravano nei parametri di studio. L'attenzione è stata rivolta alle nuove evidenze riguardanti frequenza, cause, diagnosi e trattamenti del bruxismo nei giovani, con particolare interesse per le forme probabili e confermate.
L'incidenza del fenomeno
I risultati rivelano che la frequenza del bruxismo varia notevolmente, oscillando dal 5% al 50%, a seconda dell'età e della gravità della condizione. Le sue cause sono diversificate e spesso legate a risvegli notturni, comportamenti problematici e disturbi del sonno, come l'apnea ostruttiva, il russamento e gli incubi. La complessità della sua fisiopatologia suggerisce correlazioni con l'ansia, lo stress, i disturbi del ritmo circadiano, l'aggressività comportamentale e specifiche condizioni respiratorie. Per una diagnosi più accurata, si ricorre a particolari dispositivi e ad esami come l'elettromiografia a canale singolo o multicanale e la polisonnografia, soprattutto quando si sospettano complicazioni respiratorie.
Gli strumenti terapeutici
Nei vent'anni passati, la ricerca su questo tema è cresciuta notevolmente, ma gran parte delle informazioni riguarda il bruxismo possibile. Questa forma è più comune tra i giovani, soprattutto se affetti da ADHD, il disturbo da deficit di attenzione e iperattività e dalla sindrome di Down. Il trattamento coinvolge la gestione delle conseguenze orali e dentali e la valutazione di altre eventuali problematiche. Le opzioni terapeutiche spaziano dagli apparecchi orali agli interventi per correggere la mandibola e l'espansione rapida del mascellare. Tuttavia, le terapie farmacologiche sono limitate nei giovani, basandosi su evidenze ancora poco consolidate.
Un suggerimento rivolto anche ai genitori
In sintesi, questa ricerca evidenzia la complessità e l'ampia gamma di fattori legati al bruxismo notturno nei giovani, offrendo spunti preziosi per approcci terapeutici mirati e per una migliore comprensione di questa condizione. Tuttavia, lo studio in oggetto è anche un invito rivolto ai professionisti oltre che ai genitori dei piccoli pazienti a non trascurare il disturbo che invece è bene approfondire, non appena se ne abbia anche solo il sospetto.
La connessione tra carie e genetica rimane un campo in gran parte inesplorato, ma un nuovo studio condotto su gemelli ha offerto nuovi spunti di riflessione. Ricercatori provenienti da diverse istituzioni brasiliane hanno condotto una meticolosa analisi per gettare luce su questo complesso tema. Lo studio, pubblicato sul Journal of Dentistry, prestigiosa rivista scientifica, ha esaminato l'incidenza della carie in gemelli monozigoti e dizigoti, offrendo indicazioni preziose, seppur non definitive.
Uno studio sugli studi già pubblicati
I ricercatori hanno svolto una vasta ricerca sugli studi già pubblicati, attraverso database come Embase, MEDLINE-PubMed, Scopus e Web of Science, integrando queste fonti anche con altre ottenute interrogando piattaforme come Google Scholar® e Opengray. Dagli oltre 2500 studi individuati, ne hanno selezionato 19, ritenuti i più idonei a descrivere il rapporto tra carie e genetica.
Risultati e punti di forza della ricerca
I risultati indicano una relazione significativa tra fattori genetici e lo sviluppo della carie in molti dei casi esaminati. Tuttavia, il rischio di bias, cioè di errori, è stato evidenziato nel 47,4% degli studi, sollevando interrogativi sulla solidità delle prove raccolte. La ricerca ha rilevato una maggiore concordanza nell'esperienza di carie tra gemelli monozigoti rispetto a quelli dizigoti, sia per le dentizioni decidue sia per quelle permanenti. Tuttavia, non sono emerse differenze significative riguardo all'indice DMF, la scala impiegata dagli specialisti per valutare la presenza di carie o elementi mancanti. L'aspetto più critico è risultata la valutazione della certezza delle prove, giudicata bassa o molto bassa per tutti gli studi inclusi nella ricerca.
Implicazioni e futuri sviluppi
Complessivamente, sebbene non definitivi, i risultati di questa ricerca aprono la strada a ulteriori interrogativi sulla reale incidenza genetica nello sviluppo della carie. Comprendere meglio questa relazione potrebbe avere un impatto significativo nella pratica clinica e stimolare lo sviluppo di nuovi studi. Le implicazioni potrebbero indirizzarsi anche verso le terapie genetiche, suggerendo la possibilità di adottare nuovi approcci per affrontare la carie con strumenti innovativi.
I probiotici, com'è ormai noto, sono dei microrganismi amici dell'uomo. I benefici che offrono alla salute sono ampiamente documentati sia dalla ricerca scientifica che dal costante aumento dell'offerta e della domanda di tali prodotti, segno di quanto siano efficaci. Ma lo sono anche per la salute orale? Un team di studiosi operanti presso la Chongqing Medical University di Chengdu, Cina, si è dedicato a risolvere questo interrogativo mediante uno studio mirato. I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati sul Journal of Clinical Periodontology ed è bene conoscerli, perché offrono nuovi spunti per chi è impegnato nella lotta contro la parodontite, una delle malattie più gravi della bocca.
I probiotici, funzionano
I ricercatori hanno preso in considerazione i dati elaborati dal National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) relativi al periodo 2009-2014 e che coinvolgevano 4.577 adulti. L'obiettivo era scoprire se l'uso regolare di probiotici potesse influenzare in qualche modo la comparsa della parodontite. Coloro che facevano uso di probiotici presentavano un'incidenza significativamente inferiore di questa malattia rispetto a chi non li assumeva (41.08% rispetto a 27.83%). Ma gli studiosi non si sono fermati qui e sono andati ancora più a fondo della questione.
Le altre variabili prese in esame
Per valutare quello che i ricercatori chiamato odds ratio, cioè il rapporto di probabilità che un certo evento accada in relazione ad una o ad altre variabili, lo studio ha preso in esame anche età, sesso, etnia, rapporto tra reddito e povertà e l'eventuale tabagismo dei soggetti analizzati. Scoprendo che l'assunzione di probiotici, anche in relazione a queste altre variabili, è comunque sempre associata a un rischio inferiore di sviluppare la parodontite. Una malattia già di per sé grave e che espone anche ad altri rischi, come nel caso di chi soffre di diabete.
Cosa suggerisce, in sintesi, questa ricerca
Lo studio condotto dai ricercatori della Chongqing Medical University di Chengdu sono la conferma di quel che già si sapeva, ma in un ambito ben più specifico. I probiotici, infatti, fanno bene non solo alla cosiddetta salute sistemica, cioè quella dell'intero organismo, ma anche alla salute della bocca. Assumerli regolarmente, dunque, senza però dimenticarsi delle altre raccomandazioni relative ad un'alimentazione sana e all'attività fisica che non devono mai mancare, aiutano a mantenere in salute le gengive e il parodonto, dove hanno sede i nostri denti che per brillare hanno bisogno di sentirsi sempre al sicuro.